27/07/09

Vista dalla terra. Luna narrante per voce d’uomo


Alla esplicita domanda di un pessimista curioso (“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna?”), il seducente faccione non mosse ciglio. Si avvalse della facoltà di non rispondere, e in quel silente pallore continua a mostrarsi tutt’oggi. Ma già il Leopardi sapeva benissimo che la luna, lassù, non fa un bel niente, se non far smuovere nell’uomo reiterate domande su ciò che, oltre la terra, si percepisce vago e indefinito. Cosicché la luna, per voce umana, è divenuta “astro narrante” (tale è il titolo di un originale libro di Pietro Greco, Edizioni Springer, 2009) al punto che, in letteratura, è cosa assai frequente trovare pagine percorse dal suo lucore. Perché – come diceva il vecchio Qfwfq nelle Cosmicomiche di Italo Calvino – “l’avevamo sempre addosso, la luna, smisurata: quand’era il plenilunio, notti chiare come di giorno, ma d’una luce color burro, pareva che ci schiacciasse; quand’era lunanuova rotolava per il cielo come un nero ombrello portato dal vento; e a lunacrescente veniva avanti a corna così basse che pareva lì lì per infilzare la cresta d’un promontorio e restarci ancorata”.
Persino sopra l’esasperante immobilità della Fortezza Bastiani (Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari) “la luna cammina cammina, lenta ma senza perdere un solo istante, impaziente dell’alba”; e sono ancora selenici bagliori a fendere certe introspezioni psicologiche dei personaggi di Gita al Faro (Virginia Woolf), allorquando “la luna li stupì, enorme, pallida”.
Dentro il paesaggio tragico e tenebroso in cui Verga colloca la vicenda di Rosso Malpelo il protagonista odia invece “il verecondo raggio della cadente luna”, poiché per lui destinato a vivere sottoterra “ci dovrebbe esser buio sempre e dappertutto”. Mentre un’altra luna di Sicilia – quella pirandelliana in Ciaula scopre la luna – illumina l’approdo ad una raggiunta serenità: “E Ciaula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta… la Luna, col suo ampio velo di luce, … ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore”.
Ai silenzi della luna hanno dunque dato parole gli uomini, per rispecchiare in essa le opposizioni e contraddizioni del loro esistere, per tentare di scorciare quella siderale distanza che separa il “lassù” dal “qui”, nella consolante illusione che con Leopardi fa bisbigliare: “Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi, / questo viver terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia”.

20/07/09

La lingua della poesia. Nella regione estrema delle parole possibili


La poesia è la regione più estrema in cui la parola sia ancora possibile. Oltre quel luogo c’è il non-detto e forse proprio per questa contiguità con l’inespresso, la poesia talvolta riesce a dire anche l’indicibile. In uno dei suoi testi più intensi, Mario Luzi, non a caso, ebbe a scrivere: “Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione, / giacché talvolta lo puoi…”, quasi a voler invocare il verbo poetico affinché esso scandisse finalmente tutto ciò che ancora non aveva trovato una pronunciabilità.
D’altra parte – e la poetica luziana vi insiste continuamente – permane muta nell’universo una magmatica potenzialità che talvolta il poeta (e solo lui) riesce ad afferrare, e dunque a svelare (se pur a schegge, per frammenti) al sentimento umano; così che l’inconosciuto trovi un nome, venga battezzato.
Non meravigli, allora, come la poesia – e piace sintonizzarci sulla stessa lunghezza d’onda dell’ultima silloge di Cesare Viviani – possa fornire anche la grammatica per leggere quell’invisibile che, magari indecifrabile e incomprensibile, non è comunque al di fuori della natura e dell’esperienza dell’uomo, poiché – dice Viviani – “arriva un tempo in cui finisce il tempo / e sempre più si assottiglia e aderisce / alle rughe della terra e dei massi” e persino la morte “non è condanna, non è sventura, / è natura”.
Ecco, allora, che leggere poesia è apprendere la lingua dell’essenzialità, di una disarmata presunzione, della compassione e della comunione con il mondo; per dirla ancora con Luzi, è costringere i nostri cuori ad una “spoliazione di carità”. E in ragione di ciò ogni poesia è a suo modo misteriosa, tanto da far affermare a Borges che nessun poeta “sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere”.
Se dunque ai poeti è affidata la compilazione di questo sorprendente codice, valgano per loro gli ammonimenti che Orazio espletò fin dal I secolo avanti Cristo in quel componimento conosciuto, giustappunto, come Ars poetica. Nel precetto conclusivo egli esorta gli autori di versi alla paziente riflessione (mora), a un lungo lavoro di limatura (labor limae), a cancellazioni e riscritture (multa litura), per togliere quanto risulti superfluo, fino a sottoporre l’ultimo risultato creativo alla prova dell'unghia (quella con cui gli scultori constatavano la levigatezza della propria opera conclusa). Del resto l’ironico letterato di Venosa sosteneva che ai poeti non è concesso di essere mediocri: perché non lo permettono né gli uomini, né gli dei, né le colonne (sulle quali, a quei tempi, si affiggevano gli annunci di vendita dei libri).

13/07/09

Leggende interrotte. La crisi dei miti letterari legati ai luoghi


Nell’epoca odierna dei revisionismi finanche “sentimentali”, pure i miti letterari legati ai luoghi risentono di qualche crisi. Pensate all’aura che una volta avvolgeva Firenze e guardatela oggi, ogni mattina costretta a risvegliarsi nel fulgore della sua memoria e subito offesa dagli sfiatatoi delle pizzerie, percorsa da turisti arrancanti, vittime volontarie di viaggi organizzati, che guardano (quando guardano) senza “vedere” niente.
Davvero altri tempi da quelli in cui (1908) Edward Morgan Forster poteva scrivere in Camera con vista: “E’ piacevole svegliarsi a Firenze… sporgersi fuori nella luce del sole con le belle colline, gli alberi, le facciate marmoree delle chiese, e più sotto l’Arno, gorgogliante contro gli argini”. Era indubbiamente una visione alimentata ad uso di una borghesia turistica, disposta ad estasiarsi magari anche di fronte a qualche falso architettonico, pur di mantenere l’alone letterario (in verità eccessivo) entro il quale la città viveva come sospesa. Un mito che, pur con qualche sussulto, ha resistito per buona parte del Novecento, se si considera che persino Lawrence Ferlinghetti, uno dei massimi interpreti della beat generation, trovò il modo di scrivere (Scene italiane, 1969) che “Arrivando a Firenze da Ovest / guidando in autostrada fra / le macchine filanti / e nuovi condomini al cielo e case di vetro / verso la vecchia città / verso il vecchio Arno / con i suoi vecchi ponti / noi / molto lentamente / ri / co / stru / iamo / le nostre vecchie vecchie / illusioni”.
E’ dunque inevitabile non chiedersi cosa attualmente resti di quell’alone, anche perché – come osservava Mario Luzi verso la metà degli anni Ottanta – Firenze continua a vendere la sua immagine, mette a profitto le sue trascorse glorie, “si pasce delle sue viscere…, fornisce vili o preziosi prodotti per il proprio culto”.
E forse proprio Firenze potrebbe rappresentare un efficace esempio per comprendere come di certi miti estetizzanti (oserei dire mistici) se ne sia perduto una certa immagine e interpretazione letteraria. E’ andata infatti confondendosi una loro “riconoscibilità”, una sorta di sentimento dei luoghi che viveva della proiezione simbolica di architetture, opere d’arte, memoria storica. Siamo dunque di fronte a una leggenda interrotta? O forse dovrà solo ritrovarsi il filo di un racconto dentro il labirinto delle nuove geometrie interiori, nei linguaggi, nelle allusioni attraverso cui i luoghi del mondo vanno riconfigurandosi: tra i retaggi (talvolta le inutili nostalgie) del passato e i comprensibili timori per il futuro.

06/07/09

Toscana letteraria. Dalla Versilia alla Maremma un mare… a belle lettere


Le terre di Toscana che, lungo la costa, dalle Apuane scivolano fin dentro i misteri dell’antica Etruria, hanno il profumo del salmastro, dei pini e di tutte le parole che le hanno saputo raccontare. Potremmo addirittura dire che sono state proprio certe pagine letterarie ad “inventarle”, come nel caso di quelle del D’Annunzio (l’acuta osservazione è di Cesare Garboli) che "vide la Versilia nella sua nudità e la fece parlare… la fece esistere". Scriveva il Vate nell’Alcyone: “Non temere, o uomo dagli occhi / glauchi! Erompo dalla corteccia / fragile io ninfa boschereccia / Versilia, perché tu mi tocchi”. L’aneddotica dannunziana narra, peraltro, che sul letto di morte il poeta avrebbe chiesto una zolla di terra del parco della Versiliana per poterne aspirare il profumo un’ultima volta.
Sarà invece il mare di Viareggio ad essere teatro di alcune storie raccontate da Mario Tobino, che ebbe a dire come il segreto di quel suo luogo natale fosse “un’umana anarchia, piacere e sfrenata libertà, assomigliare alle risate e alla forza del Libeccio”.
Terre, dunque, che suscitano sentimenti forti e che, magari scendendo verso la Maremma, riecheggiano dei carducciani versi: “Dolce paese, onde portai conforme / l'abito fiero e lo sdegnoso canto / e il petto ov'odio e amor mai non s'addorme, / pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto”. Eh già…, la fascinosa Maremma, di cui Dante, nell’Inferno, ne aveva così definito i confini: “Non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi colti”.
Di maremmane atmosfere saranno anche intrisi molti dei romanzi di Carlo Cassola come “Il taglio del bosco” o “Un cuore arido” dove (siamo a Marina di Grosseto) “Una striscia di mare illuminata dalla luna emergeva dal buio… Sembrava una striscia di stagnuola. Avanzando, si ondulava: finché, troppo tesi per reggere allo sforzo, i cavalloni si rompevano in uno scintillio di spume”. E torna alla mente anche il romanzo d’esordio di Antonio Tabucchi (Piazza d’Italia, 1975) in cui la Maremma toscana dagli anni dell'Unità d'Italia e fino alla metà del Novecento è narrata alternando vivace realismo, racconto corale, toni quasi fiabeschi.
E poi c’è il mare dell’arcipelago toscano da cui Raffaello Brignetti (nato al Giglio, vissuto tra Roma e l’Elba) fa affiorare (si legga “Il gabbiano azzurro”) belle storie di uomini e di terre: “Prima che quella notte iniziasse, il mare si era sollevato; aveva stretto l’isola più da vicino e più sopra: più grande che mai, ferma, l’acqua era intorno a una terra senza proporzioni rispetto ad essa”.