26/04/10

Resistenza narrata. Quei fatti tra storia e mito


C’è un libro, denso di mestizia, intitolato Messaggi di pietra. Immagini della Resistenza senese (ISRS – Nuova Immagine Editrice, 1992) che documenta tutti i cippi, le lapidi, i monumenti e le tombe, sparsi in terra di Siena a ricordo dei caduti nella guerra di Liberazione. Dinanzi alla perentorietà di quelle immagini, poco spazio trovano i discorsi e persino la storiografia. Di drammatiche uccisioni si tratta. Oggi messaggi di pietra, appunto, su cui in ragione di una memoria e di un monito da tramandare, pietà e coscienza civile depongono fiori. Così come altri morti vengono alla mente, se pensiamo a chi, in quello stesso frangente storico, ebbe a trovarsi sull’opposto versante, ovvero dalla parte decisamente sbagliata.
Il fitto martirologio della Resistenza resta una testimonianza indelebile e commovente, e non meraviglia che su di esso si sia costruito anche il “mito” resistenziale. La questione è stata riproposta da Sergio Luzzatto sul Domenicale del “24 Ore” di domenica scorsa a commento della ristampa del libro in cui Alcide Cervi racconta la drammatica vicenda de I miei sette figli trucidati dai fascisti. Una storia vera, “eroica e complicata” – scrive Luzzatto – che ha assunto indubbiamente una valenza “leggendaria”. Ma del resto – gli ha fatto eco il giorno dopo su Repubblica Simonetta Fiori – “esiste il mito ed esiste la storia; decostruire il mito significa restituire alla storia la sua complessità, non necessariamente rovesciare o negare i fatti storici da cui è scaturito il racconto epico”.
Da questo punto di vista sarebbe interessante una lettura della Resistenza attraverso le pagine letterarie, perché se da una parte esse hanno contribuito alla creazione di un epos, per altri versi lo hanno pure interpretato nelle sue diverse sfaccettature. Pensiamo all’approccio antiretorico di Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno, a quello controverso di Vittorini in Uomini e no. Oppure all’immagine di un paese dilaniato quale emerge dalla Casa in collina di Pavese; all’atteggiamento “a-politico” delle pagine di Fenoglio; al rapporto tra politica e morale nella vicenda cassoliana de La ragazza di Bube; fino alla narrazione corrosiva di Luigi Meneghello nei Piccoli maestri.
Pagine scritte – ebbe a dire Calvino – “già in polemica con una memoria”, perché mancanti “di tutto ciò che lì non c’è”. Tale, infatti, è stato il racconto della Resistenza. Talvolta eccessivamente soggettivo per divenire Storia, o retorico oltremodo per essere considerato letteratura, o troppo letterario per risultare del tutto verosimile. Ma non per questo irreale.

19/04/10

Il fantasticatore. Storie e parole libere tutte


Quando tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso apparvero i primi libri di Gianni Rodari, pochi colsero la novità di una letteratura per l’infanzia che abbandonava il “bamboleggiamento” delle storie troppo caramellose o truci per condurre i piccoli lettori nella dimensione fantastica del mondo reale. Nasce così una poetica giocosa e ironica attraverso cui poter parlare ai bambini di tematiche impegnative come la pace, la guerra, l’emigrazione, il lavoro, le ingiustizie, la libertà. Perché la fiaba è anche utopia, potere dell’immaginazione e del paradosso. “Le fiabe – scriverà Rodari in Grammatica della fantasia – servono alla poesia, alla musica, all’utopia, all’impegno politico: insomma, all’uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché, in apparenza, non servono a niente”.
Ecco, allora, un nuovo manifesto della letteratura per l’infanzia (e non solo). Ma oltre i propositi apparirà subito sorprendente la scrittura rodariana che lascia intendere la lezione dei surrealisti francesi (si pensi agli Esercizi di stile di Raymond Queneau), così come di certa letteratura novecentesca italiana che in autori quali Aldo Palazzeschi e Cesare Zavattini vide raffinate espressioni di ironia ed umorismo.
La realtà si può dunque guardare da prospettive diverse e raccontarla con un linguaggio altrettanto inconsueto, che sappia giocare con le parole, capovolgere i significati, legittimare persino gli errori di ortografia. Da qui fuoriescono inventori di macchine per creare arcobaleni, trapanare l’acqua, fare il solletico alle pere. Oppure filastrocche che risultano dei veri “giocattoli poetici”, recuperano rime e ritmi della tradizione orale, smontano e restituiscono parole in tutte le loro possibili combinazioni. Rodari è un intelligente funambulo della parola messa a servizio della fantasia e di un’azione pedagogica che insegni a saper guardare il mondo. Poiché – egli diceva – “vedere i bambini felici non ci può bastare. Dobbiamo vederli appassionati a ciò che fanno, a ciò che dicono, a ciò che vedono”. Un messaggio che vale ancor di più per gli adulti, i quali, per citare ancora un divertente apologo rodariano, dovrebbero fare in modo di maturare lasciando “bambino” per lo meno un orecchio. Un orecchio “acerbo” che serva per capire “le cose che i grandi non stanno mai a sentire: / ascolto quel che dicono gli alberi, gli uccelli, / le nuvole che passano, i sassi, i ruscelli, / capisco anche i bambini quando dicono cose / che a un orecchio maturo sembrano misteriose”. Chi dunque ha “orecchio” per intendere, intenda.

12/04/10

L’800 insegna. A fare politica sono le idee


Ancor prima che si chiamasse Risorgimento ci fu in Italia un fermento culturale che in vari modi prefigurava un’unità di nazione. Nel decennio 1820-1830 il centro indiscusso di questa officina di idee fu Firenze. Basti pensare a cosa significò la nascita del “Gabinetto scientifico letterario” fondato dal ginevrino Giovan Pietro Vieusseux. Un vero e proprio progetto culturale attorno al quale si aggregarono studiosi e uomini di diversa formazione per confrontarsi su temi politici, legislativi, pedagogici, letterari, scientifici. Nel Palazzo Buondelmonti, sede del Gabinetto, si promossero incontri con personaggi quali Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni (che vi giunse con la copia fresca di stampa dei Promessi sposi). In quelle sale – sosta di numerosi stranieri in transito da Firenze – era possibile leggere periodici e giornali inglesi, francesi, tedeschi, italiani. Oppure scegliere dagli scaffali della “biblioteca consultiva” dizionari, bibliografie, atlanti, repertori. Nell’intento di diffondere quanto più possibile la cultura fu ideata anche una biblioteca circolante con il prestito a domicilio di opere contemporanee scelte dallo stesso Vieusseux e indirizzate a discipline da lui considerate fondamentali (storia, geografia, scienze, letteratura, economia, cronache di viaggio).
In un siffatto laboratorio di idee sorse pure la rivista L’Antologia, promossa da Vieusseux e da Gino Capponi, e supportata da molti intellettuali del tempo. La linea editoriale della rivista era quella del superamento dell’ambito municipalistico per porre, invece, l’attenzione sui problemi generali della cultura italiana. Forte di una base di 500 abbonati, L’Antologia ebbe una diffusione assai superiore ad analoghe riviste milanesi (ad esempio Il Conciliatore) contribuendo a formare il concetto di egemonia culturale, nonché a far nascere, in Toscana, una borghesia liberale.
Frequentò quella cerchia di illuminati anche Bettino Ricasoli, convinto assertore della tematica nazionale, al punto di fondare nel 1859 un giornale (non a caso chiamato La Nazione) sulle cui pagine si poterono leggere scritti di Massimo d’Azeglio, Giosuè Carducci, Edmondo De Amicis, Carlo Lorenzini (l’autore di Pinocchio fu un brillante giornalista).
Tutto ciò a ribadire, giusto parafrasando il D’Azeglio, che (fatta l’Italia) per finire di fare gli italiani (operazione a tutt’oggi incompiuta) non sarebbe male un nuovo risorgimento di idee e di elaborazioni culturali. Una sfera pre-politica, insomma, che alla politica potesse offrire sufficienti ragioni di senso.

06/04/10

Dostoevskij e Tolstoj. Pasqua questione di fede


Qualora anche la Pasqua volesse trovarci in compagnia di un buon libro, converrà orientarci sui classici. E due autori su tutti: Dostoevskij e Tolstoj. Se non altro per ripensare le ragioni di questa festività che celebra un mistero di morte e risurrezione su cui va a fondarsi una religione, una cultura.
Rileggere dunque Dostoevskij, magari il capitolo de “Il grande inquisitore” racchiuso nei Fratelli Karamazov, dove Cristo torna in terra e nuovamente viene condannato da un cardinale inquisitore la cui verbosità cozza sull’immobile silenzio di Gesù che ancora perdonerà i suoi giudici.
E’ noto che dei quattro Vangeli, quello di Giovanni fosse il preferito dallo scrittore russo (l’edizione della sua biblioteca è fitta di una sessantina di annotazioni autografe), forse perché vi trovava una maggiore corrispondenza di sentimenti, una visione del tutto cristologica a sostegno di una vita che, senza fede, precipiterebbe nella disperazione. Del resto, fino al termine della sua esistenza, Dostoevskij lottò non tanto contro l'incertezza se essere o no credente, quanto contro l'incapacità di credere.
Per venire invece a Tolstoj, egli sosteneva che “senza religione, come senza cuore, l'uomo non può vivere”. Ecco perché certi suoi personaggi (torna in mente Natasha o il soldato-contadino Platon Karataev di Guerra e pace) risultano, grazie alla purezza dei loro cuori, veri portatori di un amore salvifico.
Fin qui alcune considerazioni per chi, grazie a questi autori, intendesse ritrovare orizzonti spirituali. Ma non si dimentichi che con Tolstoj e Dostoevskij la narrativa dell’Ottocento raggiunge i suoi caratteri più significativi nel cogliere il senso drammatico della storia, l’introspezione dentro l’animo umano. Esiste a questo proposito un saggio di George Steiner (Tolstoj o Dostoevski, Garzanti, 2005) che pone i due russi come in contrapposizione, secondo l'idea – la ricordò Vittorio Strada recensendo il libro – che Tolstoj fosse sintesi “della tradizione epica che coglie la vita nella grande corrente della sua organica unità, mentre Dostoevskij l'espressione più alta della visione tragica che scandaglia l'uomo nelle sue vertiginose disarmonie”.
Steiner arriva ad immaginare che il drammatico dialogo fra Cristo e il Grande Inquisitore prima citato, potrebbe costituire proprio un sottinteso contraddittorio tra Dostoevskij e Tolstoj. Certo è che quelle pagine, tra le più potenti della moderna letteratura, rappresentano un sofferto confronto che in ciascuno di noi può accendersi ogni qual volta ci si trovi, allo stesso tempo, inquisitori e condannati.